Vietati gli allevamenti di salmone in Argentina

Abstract: Niente più allevamenti di salmone nella Terra del Fuoco in Argentina. Approvata una legge che li vieta.

Un grande traguardo per l’ambiente

In Argentina è stata approvata una legge che vieta gli allevamenti di salmone, considerati una minaccia per la sostenibilità ambientale. Gli allevamenti intensivi, oltre che crudeli, hanno un impatto ambientale devastante: al loro interno infatti si concentrano ingenti quantità di rifiuti di plastica, ferro, reti, prodotti chimici, antibiotici e migliaia di altri pesci morti.

Per questo il legislatore della provincia meridionale della Terra del Fuoco in Argentina ha approvato all’unanimità una legge che vieta “tutte le attività di coltivazione e produzione di salmonidi” nelle acque marine e nei laghi del territorio. Obbiettivo del provvedimento è “assicurare la tutela, la conservazione e la salvaguardia delle risorse naturali, genetiche, degli ecosistemi marini e lacustri”.

Impatto ambientale degli allevamenti di salmone nel mondo

Secondo le stime nel 1970 la popolazione di salmoni in fase di riproduzione era di circa 8/10 milioni di esemplari. Oggi ne sarebbero rimasti meno della metà. La pesca intensiva è stata uno dei principali fattori della loro scomparsa. Gli ecologisti parlano di conseguenze gravi in Islanda, Norvegia, Scozia e Irlanda dove i pesci sono tenuti in gabbie a rete aperta che permettono all’acqua di passare liberamente, insieme a virus, pidocchi di mare, batteri, metalli pesanti, spazzatura, disinfettanti e pesticidi. Quattro organizzazioni dei suddetti paesi hanno lanciato una petizione per vietare questo tipo di attività, seguendo l’esempio dello Stato di Washington negli Stati Uniti, dove è già stata approvata una legislazione per eliminare gradualmente le gabbie a rete aperta, di una regione in Norvegia dove è stato bandito di costruirne di nuove ed ora anche della Terra del Fuoco. 

Per proteggere il salmone selvaggio dell’Atlantico e la trota di mare da cui dipendono molte comunità costiere e fluviali è necessario fermare questo genere di allevamenti ittici. 

Le motivazioni etiche 

La maggior parte degli esemplari allevati viene cresciuta in allevamenti ittici in condizioni deplorevoli: ai salmoni viene dato uno spazio in cui muoversi equivalente ad una vasca da bagno, nonostante alcuni esemplari possano arrivare a 75 cm di lunghezza.

I pesci che vivono in spazi sovraffollati sono più sensibili alle malattie ed allo stress, presentando comportamenti aggressivi e lesioni come ferite alle pinne. Oltre all’assenza di spazio personale, il sovraffollamento può portare anche alla scarsa qualità dell’acqua, che a sua volta si traduce in meno ossigeno respirabile per i pesci.

L’allevamento ittico in gabbia impedisce ai pesci di esprimere un comportamento naturale come quello di nuotare. I salmoni sono una specie migratoria che nel proprio habitat percorre distanze lunghissime, mentre in allevamento sono costretti a nuotare in tondo, sfregando continuamente contro la rete e contro i compagni di gabbia.

Oggi più della metà del pesce consumato proviene dall’acquacoltura, prevalentemente dagli allevamenti ittici intensivi industriali. Nel 2015, nel solo continente europeo, circa un miliardo di pesci sono stati allevati in gabbie subacquee.

La situazione in Italia

In Italia, fatta eccezione per quell’inchiesta di qualche mese fa del popolare programma televisivo “Le iene” sull’industria del salmone, che qualcuno avrà sicuramente sensibilizzato, c’è una bassa attenzione nei confronti delle tematiche green in generale, stando ai dati di valutazione dell’impatto ambientale. Il mercato del salmone nel 2017 ha registrato un +8% (Europanel). Nei primi mesi del 2018 si è addirittura assistito ad una crescita del 24% delle esportazioni di salmone norvegese verso l’Italia (l’anno scorso ne sono arrivate quasi 45mila tonnellate). Il salmone è un prodotto principe di un mercato, quello del pesce nel suo insieme, che nel 2017 ha avuto un incremento generale del 5% nel nostro paese. Se non vogliamo porre l’attenzione sull’ambiente, in maniera assai miope poiché la terra ad oggi è l’unico pianeta in grado di ospitarci, occupiamoci quanto meno della nostra salute. Siamo sicuri che introdurre nel nostro corpo ogni giorno batteri, residui di antibiotici, pesticidi e sostanze chimiche non possa avere a lungo andare effetti negativi sul nostro benessere? Ricordiamoci che fare la spesa è un atto politico: non gettiamo nel carrello frettolosamente ed alla rinfusa i primi prodotti che sollecitano la nostra vista ed il nostro palato, senza soffermarci sulle loro caratteristiche e sulla loro filiera. Prima di fare qualunque acquisto, meditiamo sulla sua necessità e soprattutto sulla sua qualità. 

Francesca Roveda (Cheyenne)

Di necessità virtù

Perdere il lavoro in questi tempi pandemici è purtroppo all’ordine del giorno. Ma c’è chi non si perde d’animo e si reinventa un presente all’insegna del green

Storia di Greta

Ieri ho ricevuto un’e mail in cui Greta, una barista disoccupata, mi ha raccontato la sua storia. Dopo un crollo emotivo dovuto alla pandemia ed alla perdita delle proprie certezze in ambito lavorativo, questa intraprendente trentenne decide di non perdersi d’animo e, ricercando nuovi stimoli, si butta in un’avventura di e commerce, attraverso la pubblicazione di un profilo Instagram, dove propone candele e manufatti rigorosamente green. Si tratta di un progetto di riciclo creativo, grazie alle bottiglie conservate dal marito in tanti anni di attività, che dona ad esse nuova vita: ecco che una bottiglia di Moët & Chandon si trasforma in un vaso da fiori o una lattina di aranciata in una candela profumata, per la quale viene utilizzata esclusivamente cera di soia e stoppini in legno o cotone. Il tutto perfezionato da originali packaging dall’anima e dall’aspetto bio. 

Quando il mondo sembrava crollarle addosso, Greta ha deciso di reagire, sforzandosi di vedere la luce in fondo al tunnel e regalando, con la sua nuova attività, un messaggio di speranza, oltre che di rispetto per l’ambiente che tutti noi condividiamo (gli affascinante lanci di sonde su Marte per ora non ci hanno ancora confermato la possibilità di poter colonizzare un altro pianeta).

Greta e gli altri

Il progetto di Greta però non è un caso isolato, di questi tempi in cui la pandemia e le sue nefaste conseguenze a livello globale inducono ad aguzzare l’ingegno: molti giovani stanno riscoprendo i valori agresti, decidendo di investire, grazie anche ai contributi a fondo perduto ed alle agevolazioni, nel campo del nonno dimenticato per troppo tempo o ristrutturando cascinali di famiglia. 

Negli ultimi cinque anni, il numero dei giovani imprenditori agricoli è cresciuto del 14%, con un balzo significativo registrato proprio nel corso del 2020. I dati sono quelli forniti da Coldiretti in merito all’investimento nel comparto degli under 35 italiani, sempre più attratti dalla campagna a discapito delle altre attività produttive. Anche quest’anno inoltre è stata confermata la detrazione Irpef del 36% sulle spese sostenute per sistemare aree verdi, otre all’ecobonus, ossia la detrazione fiscale riconosciuta per i lavori di riqualificazione energetica degli edifici già esistenti. 

Dall’India l’ultima iniziativa eco friendly

In tutto il mondo si moltiplicano le iniziative e le attività lavorative volte alla tutela del nostro pianeta, nella direzione di un consumo consapevole.

E’ il caso di Abhinav Talwar, cresciuto in una piccola città montana dell’India chiamata Dagshai, tra imponenti pini e paesaggi mozzafiato. L’amore per la sua terra fa nascere in lui la preoccupazione per gli incendi boschivi che ogni anno minacciano le foreste dell’Himalaya, causati principalmente dall’intensificazione dell’agricoltura e dal cambiamento climatico.

Gli aghi di pino caduti, essendo molto infiammabili, contribuiscono notevolmente alla diffusione degli incendi boschivi. In estate, ricoprendo il terreno della foresta e formando uno spesso tappeto, gli aghi consentono alle fiamme di propagarsi più rapidamente, influenzando quindi il clima e l’ecosistema della zona.

È così che nel 2020, insieme alla co-fondatrice Bhoomi Thakkar, viene avviata Vasshin Composites, azienda innovativa ed attenta ai bisogni dell’ambiente, che utilizza gli aghi di pino secchi per creare stoviglie biodegradabili.

Il prossimo 22 aprile sarà l’Earth day, una giornata per ricordarci di essere riconoscenti nei confronti del pianeta che ci ospita, attraverso manifestazioni in giro per il mondo, perlopiù in streaming, data l’impossibilità di radunarci ed aggregarci come prima della pandemia. L’invito è quello di cercare di assomigliare un pò di più a Greta ed a Abhinay Talwar, piuttosto che a Donald Trump, la cui coscienza ecologista è inesistente. 

Francesca Roveda (Cheyenne)

Keywords: riciclo creativo, consumo consapevole, green, ecobonus, pandemia

Di necessità virtù

Abstract: Perdere il lavoro in questi tempi pandemici è purtroppo all’ordine del giorno. Ma c’è chi non si perde d’animo e si reinventa un presente all’insegna del green

Text:

Storia di Greta

Ieri ho ricevuto un’e mail in cui Greta, una barista disoccupata, mi ha raccontato la sua storia. Dopo un crollo emotivo dovuto alla pandemia ed alla perdita delle proprie certezze in ambito lavorativo, questa intraprendente trentenne decide di non perdersi d’animo e, ricercando nuovi stimoli, si butta in un’avventura di e commerce, attraverso la pubblicazione di un profilo Instagram, dove propone candele e manufatti rigorosamente green. Si tratta di un progetto di riciclo creativo, grazie alle bottiglie conservate dal marito in tanti anni di attività, che dona ad esse nuova vita: ecco che una bottiglia di Moët & Chandon si trasforma in un vaso da fiori o una lattina di aranciata in una candela profumata, per la quale viene utilizzata esclusivamente cera di soia e stoppini in legno o cotone. Il tutto perfezionato da originali packaging dall’anima e dall’aspetto bio. 

Quando il mondo sembrava crollarle addosso, Greta ha deciso di reagire, sforzandosi di vedere la luce in fondo al tunnel e regalando, con la sua nuova attività, un messaggio di speranza, oltre che di rispetto per l’ambiente che tutti noi condividiamo (gli affascinante lanci di sonde su Marte per ora non ci hanno ancora confermato la possibilità di poter colonizzare un altro pianeta).

Greta e gli altri

Il progetto di Greta però non è un caso isolato, di questi tempi in cui la pandemia e le sue nefaste conseguenze a livello globale inducono ad aguzzare l’ingegno: molti giovani stanno riscoprendo i valori agresti, decidendo di investire, grazie anche ai contributi a fondo perduto ed alle agevolazioni, nel campo del nonno dimenticato per troppo tempo o ristrutturando cascinali di famiglia. 

Negli ultimi cinque anni, il numero dei giovani imprenditori agricoli è cresciuto del 14%, con un balzo significativo registrato proprio nel corso del 2020. I dati sono quelli forniti da Coldiretti in merito all’investimento nel comparto degli under 35 italiani, sempre più attratti dalla campagna a discapito delle altre attività produttive. Anche quest’anno inoltre è stata confermata la detrazione Irpef del 36% sulle spese sostenute per sistemare aree verdi, otre all’ecobonus, ossia la detrazione fiscale riconosciuta per i lavori di riqualificazione energetica degli edifici già esistenti. 

Dall’India l’ultima iniziativa eco friendly

In tutto il mondo si moltiplicano le iniziative e le attività lavorative volte alla tutela del nostro pianeta, nella direzione di un consumo consapevole.

E’ il caso di Abhinav Talwar, cresciuto in una piccola città montana dell’India chiamata Dagshai, tra imponenti pini e paesaggi mozzafiato. L’amore per la sua terra fa nascere in lui la preoccupazione per gli incendi boschivi che ogni anno minacciano le foreste dell’Himalaya, causati principalmente dall’intensificazione dell’agricoltura e dal cambiamento climatico.

Gli aghi di pino caduti, essendo molto infiammabili, contribuiscono notevolmente alla diffusione degli incendi boschivi. In estate, ricoprendo il terreno della foresta e formando uno spesso tappeto, gli aghi consentono alle fiamme di propagarsi più rapidamente, influenzando quindi il clima e l’ecosistema della zona.

È così che nel 2020, insieme alla co-fondatrice Bhoomi Thakkar, viene avviata Vasshin Composites, azienda innovativa ed attenta ai bisogni dell’ambiente, che utilizza gli aghi di pino secchi per creare stoviglie biodegradabili.

Il prossimo 22 aprile sarà l’Earth day, una giornata per ricordarci di essere riconoscenti nei confronti del pianeta che ci ospita, attraverso manifestazioni in giro per il mondo, perlopiù in streaming, data l’impossibilità di radunarci ed aggregarci come prima della pandemia. L’invito è quello di cercare di assomigliare un pò di più a Greta ed a Abhinay Talwar, piuttosto che a Donald Trump, la cui coscienza ecologista è inesistente. 

Francesca Roveda (Cheyenne)

Keywords: riciclo creativo, consumo consapevole, green, ecobonus, pandemia

La valla

Distopia o realtà?

Può una serie, realizzata prima dell’esplosione della pandemia, predire il futuro?

La serie

La barriera-il cui titolo originale è La valla- è una delle ultime serie in lingua spagnola proposte da Netflix che ha destato la mia curiosità e catturato totalmente la mia attenzione già dopo la prima puntata dell’unica stagione. 

La serie in realtà ha debuttato l’11 settembre del 2020, data in cui ricorre l’indimenticabile anniversario degli attentati alle torri gemelle del 2001, chissà se per pura casualità o ali contrario per volontà di palesare da subito la drammaticità della tematica trattata. 

I fatti hanno luogo in Spagna, nel 2045, epoca in cui una crescente scarsità di risorse naturali trasforma le democrazie occidentali in regimi dittatoriali, che giustificano la mancanza di libertà con la promessa di garantire la sopravvivenza dei cittadini. Se già intravedete sinistre coincidenze con la situazione che stiamo vivendo attualmente, aspettate di conoscere il seguito: un virus sconosciuto sta devastando la Spagna, la capitale Madrid è divisa in due regioni, rispettivamente il Settore 1, abitato dal governo e dai privilegiati ed il Settore 2, dove vivono tutti gli altri abitanti. L’unico modo per passare da una zona all’altra è attraversare la barriera di recinzione che le separa, per la quale è richiesto un pass normativo ed un trattamento di igienizzazione. 

Sinossi e caratteristiche

Sullo sfondo di una Madrid irriconoscibile e militarizzata, si svolge la storia di una famiglia che fatica a ricongiungersi e che per sopravvivere si macchierà di una serie di crimini che li inseguirà fatalmente per tutta la durata della vicenda. La famiglia originaria è composta da due gemelle, costrette a separarsi dal padre quando sono bambine. Le ragazze vengono cresciute da una madre forte e battagliera, che non perde mai la speranza di poter riconquistare la libertà. Le due sorelle sono interpretate da Olivia Molina, figlia di Angela Molina, indimenticabile protagonista di Quell’oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel. La piccola Marta, figlia di una delle due sorelle che muore a causa del virus, viene rapita dal governo e destinata ad un centro di ricerca medica per fungere da cavia insieme ad altri bambini, sui quali vengono sperimentati antidoti e cure nel tentativo di trovare un vaccino contro il virus mortale e garantire così la sopravvivenza del genere umano. Non è la prima volta che i bambini hanno la peggio in queste serie distopiche, basti pensare al crudele destino degli infanti in The handmade’s tale, strappati da neonati alle braccia delle madri naturali per essere cresciuti da sconosciute facoltose, incapaci di procreare. Ma per scoprire se il mondo riuscirà a ritrovare una dimensione umana ed a sfuggire alla tirannia, si dovrà attendere la seconda stagione, ammesso che venga realizzata, nonostante il grande successo ottenuto in patria. 

Qualche riflessione 

In rete si possono trovare commenti contrastanti rispetto al gradimento di questa prima serie: qualcuno, ad esempio, paragona l’atmosfera del set ai toni della soap, lamentando evidentemente la mancanza di crudezza, che troviamo ad esempio in una serie altrettanto distopica quale Snowpiercer

Le motivazioni che portano alla condizione rappresentata nella serie sono effettivamente assenti, nel senso che non è stato approfondito, magari volutamente, l’aspetto socio-politico e pandemico, ma se dovessimo raccontare tra una ventina d’anni la situazione al limite del surreale che oggi stiamo vivendo, siamo sicuri che saremmo in grado di tradurla in parole o di renderla comprensibile ai posteri? 

Una fiction, il cui scopo precipuo è quello di intrattenere, raramente può indurre a riflessioni complesse, ma questa ha certamente il pregio di mettere  quanto meno la pulce nell’orecchio anche ai più reticenti.

Francesca Roveda (Cheyenne)

La periferia cade a pezzi

Lontano dalle luci della ribalta, dall’imponenza del Duomo, dalla ricchezza dei nuovi quartieri di moda come City Life, c’è una periferia che soffre

Antefatto

Milano, la città che non dorme mai, quella degli aperitivi e delle notti folli, quella degli uffici e delle metropolitane gremite di gente, faro della moda nel mondo, si sta spegnendo, a causa dei lockdown e delle misure restrittive messe in campo nel tentativo di arginare la pandemia. E la sua periferia, sulla cui salute vale la pena soffermarsi per tastare il polso di un intero sistema, sta cadendo a pezzi. Ieri pomeriggio ho parcheggiato l’auto e sono andata in giro a piedi per sbrigare le consuete commissioni. Per avere l’impressione di essere davvero nella city, devo oltrepassare il cavalcavia Buccari, che si trova nella zona sud di Milano, dove in mezzo ad un parco agricolo sorge il posto che è diventato la mia seconda casa-la prima è a Verona-un’ex fabbrica della Richard Ginori adibita a loft. La struttura è un cantiere in continua costruzione, immerso dalla mattina alla sera nel rumore intermittente di martelli pneumatici e saldatrici, che si mescolano ai suoni provenienti dalle varie unità abitative-anche se i loft sarebbero C3, quindi esclusivamente ad uso ufficio. Aggirandosi tra i corselli che suddividono le varie zone, si respira un’atmosfera post-industriale, indefinita, fuori dal tempo. Quando piove e l’acqua scende dai cornicioni arrugginiti o batte sulle lamiere provvisorie che verranno sostituite da altre costruzioni, il contesto assume contorni alla Blade runner. I Tucididiani – quelli che qui vivono e lavorano – sono una razza meticcia, che annovera nel suo habitat un campionario umano vario, dallo studente universitario che per pagarsi gli studi sbarca il lunario facendo il modello, al professionista affermato. Una fetta consistente della comunità è costituita dai cani e dai gatti, che si spartiscono il territorio, il più delle volte pacificamente, non disdegnando qualche esemplare tafferuglio. 

Le unità hanno varie metrature e caratteristiche, ma in generale si tratta di strutture terra-cielo, con ampie vetrate, scale di ferro o cemento e soppalchi di legno. Le varie zone sono state ribattezzate dai Tucididiani in base alla tipologia, al costo ed alle caratteristiche dei loro abitanti; esiste così Melrose Place – dove gli ampi loft sono dotati di un dehoro di un terrazzo, che potrebbe essere definita la zona residenziale deluxe – ed il Bronx, occupato perlopiù da strani individui con creste e capelli fluo, che si spostano in monopattino e che trasportano in continuazione cose con i carrelli della spesa. Il Bronx è una comunità a parte con proprie regole e criteri di appartenenza.

Io appartengo alla zona detta Montaggio-il nome è sicuramente una reminiscenza della vecchia fabbrica di sanitari-intermedia a livello di prestigio, dove si mescolano eterogenee tipologie di persone e di attività professionali.

Impressioni di marzo

Immersi in un’incessante frenesia quotidiana, capita sempre più raramente che ci si soffermi davvero a guardare quello che ci circonda. Ieri, su quel cavalcavia che sormonta le rotaie del treno, ho avuto il tempo di farlo. In un angolo semi nascosto, il giardino di una chiesa, si erge maestoso uno splendido albero fiorito di rosa, immagine profondamente stridente con l’immondizia sparsa ai suoi piedi e disseminata su strade e marciapiedi, tanto che la gente ormai non si china nemmeno più per raccogliere l’ennesima cartaccia che incontra sul proprio cammino. Colpisce l’incredibile numero di mascherine abbandonate con noncuranza a terra: ne ho contate almeno una dozzina nella sola via Negroli dove mi sono fermata a comprare frutta e verdura in un piccolo negozio gestito da una coppia di indiani. L’odore di urina che imbratta i muri dei palazzi penetra in maniera fastidiosa nelle narici, pur sigillate dal dispositivo di protezione anti Covid, la nostra inseparabile mascherina. Una spessa patina grigia ricopre i muri di negozi e condomini, dall’aspetto perlopiù fatiscente. 

Dal degrado non si sfugge, perché è radicato in ognuno di noi: ci siamo abituati a passare oltre, a non voler vedere, a dimenticare presto. 

Sulle saracinesche abbassate campeggiano le scritte “chiudo”, “vendesi”, o al massimo “svendita per cessata attività”. Le persone attendono il loro turno d’ingresso al supermercato con aria sconfitta, qualcuno sembra preoccupato, magari su come riuscire a fare la spesa il giorno dopo. 

Sulla strada del rientro noto una ragazza avvenente, bionda, vestita alla moda, che spinge un carrello della spesa carico di vestiti, sacchi e merce varia. Ha lo sguardo perso e parla da sola. Non posso non chiedermi cosa possa esserle accaduto, quando il suo cervello sia andato in blackout, quando ha smesso di essere “normale”.

I fatti

In un anno che ha messo alla prova anche la salute mentale dell’umanità, come mai era accaduto nella storia recente, si paga il cosiddetto effetto lockdown. In base al primo rapporto annuale del Mental Health Million project, un’iniziativa mirata a misurare il benessere mentale globale per individuare i problemi più diffusi e guidare gli interventi di salute pubblica, il 2020 ha riportato un calo significativo e diffuso della salute mentale ed il crollo più evidente riguarda la fascia di età tra i 18 e i 24 anni. 

Secondo la stima dell’Ufficio Studi Confcommercio sulla nati-mortalità del 2020 delle imprese del commercio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi l’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi del 10,8% -pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019-ha portato per il 2020 la chiusura definitiva di oltre 390mila imprese. Di queste, 240mila esclusivamente a causa della pandemia. L’emergenza sanitaria, con le conseguenti restrizioni e chiusure obbligatorie, ha acuito drasticamente il tasso di mortalità delle imprese che, rispetto al 2019, risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato.

Se i drammatici effetti di questa situazione si ripercuotono su una città tradizionalmente considerata ricca come Milano, la situazione a rigor di logica  deve essere disperata nelle zone più fragili del paese.

Aldilà dei dati e delle statistiche, io credo che una città possa essere considerata produttiva ed in salute quando tutti i suoi quartieri, le sue zone ed i suoi abitanti siano equamente supportati da una adeguata politica di sostegno. Milano che dimentica la sua periferia è come qualcuno che si mette in ghingheri senza prima lavarsi.

Francesca Roveda (Cheyenne)

Mascherine e nanoplastiche: il nuovo allarmante pericolo per l’ambiente

Abstract: Con la pandemia il problema dell’inquinamento ambientale si è ulteriormente aggravato, con gravi conseguenze per il pianeta e tutti i suoi abitanti.

Una nuova battaglia ecologica

Ogni giorno, durante le mie passeggiate con il quadrupede, non faccio che raccogliere bicchierini di plastica, tetrapak di succhi di frutta o vino scadente, bottiglie di birra e lattine di bevande gassate, rifiuti impunemente abbandonati a terra, nonostante il parco dietro casa mia, ad esempio, sia regolarmente provvisto di cestini. Come se non bastasse il problema dell’esubero di plastica, è soprattutto la presenza delle mascherine a costituire un nuovo pericolo per l’ambiente e gli animali. 

A lanciare l’allarme è un nuovo studio condotto presso l’Università della Danimarca meridionale, secondo cui ogni minuto gettiamo via 3 milioni di mascherine, molte delle quali finiscono per diventare micro e nanoplastiche potenzialmente tossiche o in grado di trasportare altri agenti pericolosi nell’ambiente.

Altri studi recenti stimano che vengono utilizzati 129 miliardi di mascherine a livello globale ogni mese, pari a 3 milioni al minuto. 

Lo studio 

Secondo gli autori del nuovo studio dell’Università della Danimarca meridionale e dell’Università di Princeton, non esistono ancora oggi linee guida per il riciclaggio delle mascherine, le quali,se disperse nell’ambiente, possono frammentarsi in particelle di plastica più piccole-micro e nanoplastiche: a differenza delle bottiglie, di cui circa il 25% viene riciclato, le mascherine vengono smaltite come rifiuto solido indifferenziato. Nella migliore delle ipotesi finiscono in discarica o vengono bruciate, ma il pericolo è che possano spargersi nell’ambiente, nei corsi d’acqua dolce e negli oceani, con conseguenze catastrofiche per l’ecosistema.

La preoccupazione più recente è che le mascherine, realizzate con fibre di plastica molto piccole, quando si rompono nell’ambiente possono rilasciare più plastiche micro-dimensionate, più facilmente e più velocemente delle plastiche sfuse come sacchetti di plastica. Come altri detriti di plastica, anche le mascherine usa e getta possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche e biologiche nocive per piante, animali ed umani, quali bisfenolo A, metalli pesanti e microrganismi patogeni.

Soluzioni al problema

Secondo gli autori dello studio ci sono alcune accortezze che si possono seguire per limitare i danni: l’utilizzo di bidoni della spazzatura esclusivi, la sostituzione delle mascherine usa e getta con quelle riutilizzabili e lo sviluppo di mascherine biodegradabili. Esistono già delle aziende che si occupano della differenziazione di questi materiali: in Italia, ad esempio, Eurocorporation  mette a disposizione dei propri clienti, anche gratuitamente, contenitori specifici per lo smaltimento di mascherine e guanti. 

Mentre la scienza e la medicina studiano metodi sempre più rapidi e sofisticati per la salvaguardia della nostra esistenza, sarebbe bene ricordare che è compito di tutti noi pensare alla tutela dell’unico pianeta attualmente in grado di ospitarci.

Francesca Roveda (Cheyenne)

Lavarsi è bene, non lavarsi (a volte) è meglio

Dall’invenzione del sapone in poi tutti-chi più chi meno-facciamo uso di detergenti e prodotti per la pulizia. Ma conosciamo i componenti di quello che usiamo tutti i giorni?

L’invenzione del sapone

La prima testimonianza dell’esistenza del sapone risale al 2800 a.C. e proviene da scavi nella zona dell’antica Babilonia. In quella zona fu ritrovato un materiale simile al sapone conservato in cilindri d’argilla che recano incise delle ricette per la preparazione. Una tavoletta sumera datata 2200 a.C. descrive un sapone composto di acqua, alcali ed olio di cassia. Varie sono le testimonianze ed i ritrovamenti che indicano la presenza di sostanze detergenti presso tutte le civiltà antiche, dagli egiziani ai greci ai romani, ma gli studi storico-archoelogici assegnano agli arabi il primato di veri inventori del sapone moderno. Il sapone veniva prodotto con una base di olio d’oliva, di timo o alloro, tuttora elementi principali del sapone di Aleppo. Per la saponificazione venne usata per la prima volta dagli arabi la soda caustica (Al-Soda Al-Kawia), metodo utilizzato fino all’età moderna. La storia del sapone prodotto artigianalmente finisce con la rivoluzione industriale: alla fine del diciassettesimo secolo il chimico francese Nicolas Leblanc inventò una procedura per ottenere dal sale comune la soda, sostanza alcalina. La produzione di soda caustica da soluzioni saline, perfezionata negli anni successivi, aprì la strada all’industrializzazione della produzione del sapone. I successivi progressi della chimica nel corso del diciannovesimo secolo posero le basi scientifiche per la fabbricazione su larga scala del sapone, relegando alla sfera della nicchia i prodotti artigianali.

Leggere con cura 

Al giorno d’oggi, assorbiti da ritmi di vita frenetici e stressanti, quando andiamo a fare la spesa arraffiamo prodotti a caso, che magari ci sono stati suggeriti da qualche pubblicità martellante, senza conoscere minimamente i componenti dei quali sono costituiti, che potrebbero risultare nocivi, quando non pericolosi, per la nostra pelle e per la nostra salute. Lo standard da anni più usato nel settore della ecocosmesi e detergenza è il biodizionario– (www.biodizionario.it) a cui fa riferimento anche l’INCI (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients), denominazione internazionale utilizzata per indicare in etichetta i diversi ingredienti del prodotto cosmetico. 

Tra gli ingredienti dannosi da evitare si annoverano petrolati, sostanze di derivazione petrolifera occlusive e non dermocompatibili,quali petrolatum, mineral oil, vaselina e paraffina: siliconi, sostanze non dermocompatibili come i precedenti, che creano una pellicola su pelle e capelli difficile da lavare via e che solo apparentemente idrata e protegge. Se ad esempio notate sulla vostra chioma l’effetto cute grassa e lunghezze secche con doppie punte, assai probabilmente state facendo usi di siliconi quali dimethicone, amodimethicone, cyclomethicone, cyclopentasiloxane, dimethiconol, trimethylsiloxysilicate; infine conservanti, quali cessore di formaldeide ed allergizzanti. La formaldeide in particolare, che ad esempio si trova in molti smalti per le unghie, irrita pelle, capelli e mucose ed interferisce con i legami tra DNA e proteine. L’Associazione Internazionale per la Ricerca sul Cancro ( IARC) sin dal 2004 ha inserito la formaldeide nell’elenco delle sostanze considerate con certezza cancerogene per la specie umana. Un altro componente presente nella maggior parte degli shampoo in commercio, che da un effetto schiumogeno, ma che è particolarmente aggressivo con cute e capelli è il sodium lauryl sulfate. Tra gli altri, il triclosan è forse il più insidioso: si tratta di un antibatterico molto penetrante, registrato come pesticida, una delle sostanze più tossiche che si possono riscontrare nei cosmetici, anche sospetto agente cancerogeno. Accumulato nei tessuti corporei, provoca un avvelenamento lento che si protrae nel tempo, altamente rischioso per la salute umana e per l’ambiente.

Il burrocacao, uno dei prodotti più usati da uomini e donne

Dato che il burrocacao si applica sulle labbra e viene ovviamente in parte ingerito è importante sapere di quali sostanze sia composto. Alla base della maggior parte dei burrocacao in commercio ci sono i cosiddetti oli minerali, ingredienti che derivano dalla raffinazione del petrolio e che possono contenere componenti pericolosi per la salute, se ingeriti, quali i Mosh (Mineral Oil Saturated Hydrocarbon) ed i Moah (Mineral Oil Aromatic Hydrocarbon). Va specificato che la marca ed il costo non sono indicatori di maggior qualità.

Le case cosmetiche ne fanno uso perché costano meno dei componenti vegetali e danno ottimi risultati ugualmente. La legge consente di usarli se, prima dell’utilizzo nel prodotto, sono stati trattati in modo da renderli privi di residui pericolosi e sostanze cancerogene. La normativa tuttavia è generica e non specifica quali debbano essere i requisiti di sicurezza.

Il migliore, dai testi di Altroconsumo, è risultato un prodotto di un discount del costo di 0,99 euro. 

Il consiglio, per la prossima volta che andrete a fare la spesa, è quello di sprecare qualche minuto in più del vostro prezioso tempo per leggere attentamente le etichette dei prodotti che siete in procinto di acquistare, per la vostra salute e per quella altrettanto importante dell’ambiente.

Francesca Roveda (Cheyenne)

keywords: salute, benessere, care, cura della persona, cosmesi, sapone, detergenti, prodotti cosmetici, sostanze nocive, componenti, ingredienti, ambiente, pelle, capelli, haircare, skincare

Un oceano di spazzatura spaziale orbita sulle nostre teste

Come se non bastasse l’inquinamento terrestre, il 2021 si apre con la vergognosa notizia di quello spaziale

“Il cielo è immondizia”

A sky is a landfill (“il cielo è una discarica”) cantava con straordinario anticipo sui tempi il talentoso Jeff Buckley o, per dirla in maniera meno “alta”,  al peggio non c’è limite. All’uomo non basta inquinare il pianeta in cui vive, lo fa anche con lo spazio. Come se non bastasse l’inquinamento terrestre, in questo inizio di 2021 giunge la poco edificante notizia di quello spaziale: un oceano di spazzatura con oltre un milione di detriti grandi più di un centimetro e fuori controllo vola sulle nostre teste. Se qualcuno stesse già tirando un sospiro di sollievo, immaginando che il problema non lo riguardi, sbaglierebbe. Se i detriti impattassero con il nostro pianeta avrebbero infatti un effetto devastante. 

Italia in prima linea sul tema dei detriti spaziali

Da quest’anno la tematica dei detriti spaziali entra per la prima volta nel programma spaziale dell’Unione Europea, come sostiene l’esperto di detriti spaziali dell’Asi, Ettore Perozzi, intervistato dall’agenzia di stampa Adnkronos. Non solo, perché l’Italia, rappresentata dall’Agenzia Spaziale Italiana, è stata fra i 5 Paesi europei che hanno iniziato le attività di monitoraggio degli oggetti spaziali, satelliti o detriti.

L’esperto spiega cheogni volta che si studia una missione spaziale, si cerca di capire la sua sostenibilità ecologica, ovveroil suo impatto sull’ambiente spaziale: la comunità scientifica italiana ha anche sviluppato degli indici di sostenibilità dello spazio. Per una volta dunque non siamo il fanalino di coda della ricerca, anzi, dovremmo essere fieri di detenere il primato delle competenze in tema di detriti spaziali, in quanto il nostro paese ha partecipato da subito alle iniziative messe in campo per tentare di arginare il problema.

Detriti spaziali: un rischio per la Terra

Il rischio grosso, spiega sempre l’esperto dell’Asi, è che uno di questi piccoli rifiuti colpisca un oggetto orbitante di grandi dimensioni generando una nuova nube di piccoli detriti. Pertanto è necessario evitare la proliferazione di detriti spaziali. Va da sé che la prima azione da intraprendere sia quella della ripulitura dello spazio per far sì che la situazione non peggiori, ossia si deve procedere alla cattura dei grandi oggetti spaziali inattivi rimuovendoli dall’orbita e riportandoli sulla terra. Ed è altrettanto ovvio che si dovrebbe avere, perlomeno da ora in avanti, una maggiore attenzione nella gestione delle missioni al fine di minimizzare la produzione di nuovi rifiuti, puntando alla sostenibilità dello spazio.

Francesca Roveda (Cheyenne)

2020: Annus horribilis

L’anno che si è da poco concluso ci costringe a riflettere sul senso della nostre vite e sul senso della vita stessa

2020: un anno davvero orribile

La conclusione del 2020, ribattezzato a ragione annus horribilis, induce inevitabilmente a delle riflessioni personali, oltre che di carattere universale. 

La straordinaria pandemia che ha colpito tutto il mondo soltanto fino a pochi mesi fa avrebbe potuto sembrarci pura fantascienza o al massimo un racconto distopico di qualche catastrofico romanziere. Abbiamo dovuto reinventare le nostre vite, abbiamo visto crollare le nostre certezze ed abbiamo vissuto, negli ultimi tempi, in un clima di costante allarme e di estrema precarietà. 

A ciò si deve aggiungere l’altrettanto straordinaria crisi ecologica che stiamo vivendo, palese agli occhi di tutti, anche dei più miopi. I cambiamenti climatici e le azioni sconsiderate dell’uomo hanno portato ad una serie di drammatici avvenimenti che renderanno il 2020 tristemente noto nei testi di storia. 

I principali fatti che hanno sconvolto il 2020

A gennaio l’anno inizia nel peggiore dei modi, ovvero con una serie di devastanti incendi che colpiscono l’Australia e che distruggono ettari di verde, annientando miliardi di animali. A distanza di un anno dall’accaduto ancora si contano i danni.

Uno studio recente evidenzia come, negli ultimi 18 anni, l’8% della rigogliosa Amazzonia-un’area grande come l’intera Spagna- sia andato perduto: la deforestazione in Amazzonia è, ad oggi, fuori controllo.

Dopo un’apparente parentesi di respiro, dovuta alle restrizioni del lockdown, la terra riprende a soffrire per i danni riportati dall’inquinamento: nel 2020 l’Italia si conferma uno dei luoghi più inquinati d’Europa. Vale la pena ricordare che l’inquinamento costituisce un fattore di rischio pesante per contrarre il Covid-19 in maniera più severa. Come conseguenza al fattore inquinamento c’è quello dell’aumento spropositato delle temperature: in Antartide si sono raggiunti per la prima volta i 18.3 gradi. Collegato all’aumento incontrollato del caldo vi è quello dello scioglimento dei ghiacciai. 

In Africa diverse ed estese zone hanno subito una massiccia invasione di cavallette, che hanno divorato in un solo giorno una quantità di cibo utile a sfamare 90 milioni di persone-problema che ha poi colpito anche il Sud America e la Sardegna.

Dove tutto ha inizio 

Se ancora ci fossero dei dubbi su dove e come possa aver avuto origine la pandemia da coronavirus, una risposta possiamo trovarla nei mercati umidi di Wuhan, in Cina, dove si commerciano animali di ogni genere, in condizioni igieniche discutibili. Il commercio illegale di animali selvatici, che il nostro Paese pochi giorni fa ha deciso di vietare, oltre che eticamente condannabile, è risultato estremamente pericoloso per la nostra salute. La pandemia, con un ormai prevedibile effetto domino, oltre che all’umanità  ha portato ulteriori effetti devastanti all’ambiente. Le mascherine usa e getta si stanno accumulando ovunque, in particolare sulle spiagge e nel mare, mettendo a rischio la salute degli animali che possono ingerirle o restarvi impigliati. Inoltre, essendo composte di particelle di microplastica e nanoplastica, queste sostanze a lungo andare inquineranno le acque, finendo nella catena alimentare.

Vi sarebbero altri dati allarmanti da portare alla conoscenza di tutti, quali l’estinzione certa del 50% delle specie animali e vegetali presenti ancora oggi sul nostro pianeta, ma credo che per oggi ne abbiate avuto abbastanza. 

Francesca Roveda (Cheyenne)

In arrivo la bistecca umana?

Dopo le polemiche sulla denominazione non conforme di “bistecca” o “hamburger” a prodotti non di origine animale, l’ultima novità in fatto di fake meat

Fake meat

A ottobre il Parlamento europeo ha respinto i tentativi di mettere al bando l’uso di denominazioni come “hamburger vegano” o “bistecca vegetale”. Il fronte dei prodotti alternativi alla carne, la cosiddetta “fake meat”  composta da proteine vegetali, riporta dunque un’importante vittoria, anche se la decisione dell’Unione Europea non vincola i singoli stati, liberi di decidere se i prodotti in questione debbano necessariamente essere a base di carne. La coltivazione in vasca di cellule di manzo o di pollo, da cui è possibile ottenere carne “vera” senza dover passare per la macellazione di un animale, è molto avanti e non è detto che a breve non si possano ritrovare nei meni dei ristoranti queste repliche carnivore cruelty free. Esistono già prodotti, del resto, che riproducono il gusto della carne talmente bene che risulta impossibile distinguere tra la “ciccia” vera e quella finta,  ad esempio il Vegetarian Butcher di una nota catena di fast food. 

L’esperimento della carne umana

Ma la ricerca e, in questo caso, la volontà di stupire non si fermano: è il caso eclatante della riproduzione di carne umana. Un gruppo di ricercatori nordamericani ha recentemente sperimentato una tecnologia che permette la coltivazione di carne partendo da piccoli campioni di tessuto umano. L’utilizzo del metodo supera l’obiezione vegana al consumo della carne in quanto non comporta la morte e la macellazione di animali. Secondo i tre studiosi che hanno sviluppato la nuova bistecca umana, i ricercatori Andrew Pelling, Organ Telhan e l’industrial-designer Grace Knight, il consumo “tecnicamente” non rappresenterebbe un atto di cannibalismo. Il progetto, denominato “Ouroboros steak”, recentemente presentato al Design Museum di Londra, non avrebbe finalità commerciali e sarebbe inteso come una sorta di commento ai problemi etici generati dall’utilizzo delle carni cresciute in laboratorio.

I numeri della carne

Nonostante non manchino opzioni vegetariane sempre più invitanti, si conoscano gli effetti ambientali dell’allevamento degli animali e si abbiamo maggiori informazioni sulle conseguenze di un eccessivo consumo di carne per la nostra salute, il consumo di carne è cresciuto molto rapidamente negli ultimi 50-60 anni. La quantità di carne prodotta è oggi quasi cinque volte maggiore di quella dei primi anni Sessanta: siamo passati da 70 milioni di tonnellate a quasi 330 milioni di tonnellate nel 2017.

In base ai dati della FAO riportati sul sito Our World in data, Australia e Stati Uniti guidano la classifica dei Paesi in cui si mangia più carne, con 116 e 115 kg pro capite all’anno rispettivamente: in pratica come se ciascuno consumasse 50 polli o mezza mucca ogni 12 mesi. Alti consumi di carne si notano in Argentina, Nuova Zelanda e un po’ ovunque, in Occidente, mentre per i paesi a basso reddito la carne resta un’eccezione.

Secondo un’indagine di Coldiretti, nel 2018 la spesa per la carne delle famiglie italiane è aumentata di più del 5%, un rialzo che arriva dopo sei anni di calo. Il consumo medio di carne pro capite in Italia rimane comunque tra i più bassi d’Europa. Un futuro in cui la produzione di cibo sia sostenibile e sufficiente a nutrire un pianeta sempre più popolato richiederà non solo un cambiamento dei tipi di carne consumata, ma anche la sua sostanziale riduzione: la carne dovrebbe tornare ad essere un cibo “di lusso”.

Senza arrivare agli eccessi della riproduzione di carne umana, sarebbe il caso che ognuno di noi rivedesse le proprie abitudini alimentari, prima che i gas serra sprigionati dagli allevamenti intensivi ci avvelenino persino l’aria che respiriamo.

Francesca Roveda (Cheyenne)

La necessità di fare fronte comune per la sopravvivenza del genere umano e del pianeta

Tra Covid-19 ed eventi meteorologici straordinari il mondo per come lo conosciamo è destinato a cambiare irreversibilmente?

Il 2020 tra pandemia, calamità naturali e perdite economiche

Il Covid-19 si è affacciato in Occidente circa a dicembre dello scorso anno-c’è chi ne data la sua comparsa ancora prima-ma l’esplosione della pandemia e le conseguenti misure restrittive funestano le nostre esistenze da un anno, periodo che passerà senz’altro alla storia cone l’annus horribilis. Ma il 2020 e gli anni a venire sono destinati, purtroppo, a passare alla storia come catastrofici se non porremo un freno al nostro modus vivendi globalizzato ed iper produttivo.

Secondo la stima del Swiss Re Institute sulla prima metà del 2020 le catastrofi naturali ed i disastri causati dall’uomo hanno fatto registrare perdite economiche a livello mondiale pari a 75 miliardi di dollari: sul totale dei danni le catastrofi di origine naturale hanno causato perdite per 72 miliardi di dollari contro i 52 del primo semestre del 2019. I restanti 3 miliardi di dollari di perdite derivano dai disastri annoverabili all’uomo, in calo rispetto ai 5 miliardi del primo semestre, diminuzione riconducibile alla pandemia, che, a causa dei lockdown imposti in tutto il mondo, ha di fatto bloccato l’attività economica.

L’uomo contemporaneo e le preoccupazioni legate alla sua sopravvivenza

Oltre ai danni economici ovviamente i dati peggiori riguardano la perdita di vite umane: calamità naturali come tempeste di vento, violente piogge, incendi ed inondazioni, eventi che hanno coinvolto dalla California all’Australia, sono costati la vita a più di 2000 persone nel primo semestre di quest’anno. Senza contare le perdite causate dalla pandemia, che ad oggi totalizza 1.244.003 decessi e 55.928.327 casi di contagio nel mondo confermati dall’inizio della diffusione del virus. Ma gli esperti sostengono che in futuro i fenomeni meteorologici estremi saranno sempre più frequenti e distruttivi. Secondo un rapporto del gruppo assicurativo mondiale Axa, la salute risulta la priorità per le persone, mentre si allenta l’attenzione verso l’ambiente, inspiegabilmente, dato che

appare elementare come i due elementi siano strettamente correlati. I rischi di sopravvivenza del genere umano non hanno a che fare solo con la salute o con la situazione economico-finanziaria, ma sono indissolubilmente legati anche al cambiamento climatico.

Il cambiamento climatico e le sue criticità

Gli improvvisi mutamenti dovuti al riscaldamento dell’atmosfera del nostro pianeta portano allo scioglimento dei ghiacci polari e ad altre conseguenze che si stanno rivelando disastrose per l’ecosistema e quindi per noi stessi, quali alluvioni, bruschi temporali, estinzioni di specie animali.

Sono 15 le situazioni critiche e riguardano la formazione del ghiaccio artico estivo, il ghiaccio della Groenlandia, il ghiaccio antartico occidentale, la circolazione termoalina dell’Atlantico, la El Nino-Southern Oscillation, il monsone estivo indiano, il monsone occidentale Sahara/ saheliano, la foresta tropicale amazzonica, la foresta boreale, l’Antarctic Bottom Water, la tundra, il permafrost, gli idrati di metano nel mare, la perdita di ossigeno negli oceani, l’ozono artico.

Una delle conseguenze dovute allo scioglimento dei ghiacci è l’innalzamento dei livelli del mare, processo che si sta verificando più velocemente di quanto previsto. Se la situazione continua a peggiorare, questo aumento potrebbe mettere a rischio vaste aree costiere, sia in Europa che nel resto del mondo.

Conseguenze del cambiamento climatico

L’incremento delle emissioni di anidride carbonica fa in modo che essa si concentri nell’atmosfera. L’attuale concentrazione è la più alta degli ultimi 650.000 anni e forse anche più. Questo aumento è dovuto in parte anche alle emissioni dei paesi di nuova industrializzazione, quali Cina ed India. In natura esistono dei sistemi in grado di catturare il carbonio presente in atmosfera, ma questa loro capacità si sta riducendo di anno in anno. Questo significa che, gradualmente, una maggiore percentuale di carbonio rimarrà libera nell’aria e contribuirà al riscaldamento globale, causando così danni significativi all’ambiente.

Il riscaldamento globale ha già causato riduzioni nei raccolti di mais, frumento ed orzo; un peggioramento della situazione si prevede che interesserà soprattutto l’Asia e l’Africa, le due regioni maggiormente penalizzate dalla carenza di cibo. Inoltre, questo declino coinvolgerà anche

l’attività della pesca. Le conseguenze dei cambiamenti climatici si riversano anche sul delicato equilibrio degli ecosistemi. Negli oceani alcune specie stanno migrando a nord a causa del riscaldamento delle acque. Nelle zone tropicali i rapidi cambiamenti di temperatura causeranno l’estinzione di parecchie specie animali, ma non solo, anche di piante, fiori e frutti. Nel nord Europa, invece, l’aumento di insetti causato dal caldo provocherà seri danni alle foreste di betulle. Anche il cambiamento della disponibilità di cibo ed acqua probabilmente sarà causa di problemi, quali migrazioni forzate, soprattutto per le popolazioni costiere, come in parte sta già avvenendo. Infine, il riscaldamento globale è causa di problematiche respiratorie e cardiovascolari, in particolare negli adulti e negli anziani.

Tutti insieme per il cambiamento

Tutti quanti dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti dell’ambiente. E’ necessario capire che ogni azione compiuta da noi a livello quotidiano, anche la più comune e banale, come gettare un mozzicone di sigaretta a terra, può avere conseguenze impattanti, soprattutto se si moltiplica questa azione per il totale degli abitanti del pianeta. Usare l’auto, anche per brevi tragitti, comporta l’aumento delle emissioni di gas nell’atmosfera; gettare i rifiuti senza differenziarli fa sì che essi non vengano riciclati, ma bruciati e la loro combustione inquina ovviamente l’atmosfera. L’aria inquinata è responsabile dei cambiamenti climatici, i quali a loro volta generano le situazioni critiche che sono già davanti ai nostri occhi. Dobbiamo comprendere che l’azione del singolo si riflette nel globale: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, per la terza legge della dinamica. Se vogliamo garantirci un futuro non ci resta che modificare eventuali comportamenti sbagliati, non rimanere prigionieri di un cieco individualismo, incoscienti del fatto che siamo in realtà tutti collegati.

Francesca Roveda (Cheyenne)